Letteratura

Trilussa


Trilussa (Roma, 26 ot­to­bre 1871 - 21 dicem­bre 1950), è lo pseudo­ni­mo del poeta romano Carlo Alberto Salustri, che scelse questo pseu­do­nimo da un anagramma del proprio cognome. Fu autore di numerosissime poe­sie in dialetto ro­ma­nesco, che riuscì ad elevare a lingua lette­raria. Amico di D'Annunzio e dandy d'aspetto, baffi a manubrio ed eleganza impeccabile, Trilussa si muove tra teatri e caffè-concerto, sog­gior­ni parigini e trasferte in America Latina. I suoi amori (celebre quello con la cantante lirica Lina Cavalieri, la sua verve diventano leggendari.
Dopo un'infanzia poverissima (a tre anni era rimasto orfano di padre), non brillò affatto negli studi ma debuttò giovanissimo (1887), con poesiole ro­ma­nesche. Molto più che i libri furono le strade di Roma la fonte della sua ispi­razione,
Quando un giornale locale gli pubblicò i primi versi, questi ebbero subito suc­cesso e così la sua fama crebbe molto in fretta. Tra il 1920 e il 1930 la sua notorietà raggiunse il culmine.

Felicità
C'è un'ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va...
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.

Invidia
Su li stessi scalini de la chiesa
c'è uno sciancato co' la bussoletta
e una vecchia co' la mano stesa.
Ogni minuto lo sciancato dice:
„Moveteve a pietà d'un infelice
che so' tre giorni che nun ha magnato"
E la vecchia barbotta: „Esaggerato!"

Trilussa - Poesie
Le più belle poesie
di Trilussa
Trilussa - Poesie
Trilussa: Poesie
Di carattere folcloristico, provinciale e ma­dri­ga­lesco è il pri­mo vo­lu­me di ver­si, Le Stel­le de Ro­ma (1889); poi la sua ve­na, pre­va­len­te­men­te sa­ti­ri­ca, an­dò via via af­fi­nan­do­si, tro­van­do la mi­su­ra più con­ge­nia­le nel boz­zet­to di costume e nella favola moraleggiante del genere delle favole di Esopo e di La Fon­tai­ne: Quaranta sonetti (1895), Favole romanesche (1900), Caffè-concerto (1901), Er serrajo (1903), Ommini e bestie (1908), Le storie (1915), Lupi e agnelli (1919), Le cose (1922), La gente (1927) e molte altre.
Negli anni successivi, però, la struttura sociale della città cambiò profon­da­mente, la sua ispirazione si affievolì, i suoi anni migliori finirono.
Con il suo linguaggio arguto Trilussa ha commentato cinquant'anni di cronaca romana e italiana, dall'età giolittiana agli anni del fascismo e a quelli del do­po­guerra. La corruzione dei politici, il fanatismo dei gerarchi, gli intrallazzi dei potenti sono alcuni dei suoi bersagli preferiti.
Il 1° dicembre 1950 fu nominato senatore a vita da Luigi Einaudi, ma la gioia fu di breve durata: venti giorni dopo si spegne, vinto dai malanni che – in­sie­me alla miseria – gli avevano reso amara l'ultima parte dell'esistenza.

Nummeri
Conterò poco, è vero:
- diceva l'Uno ar Zero -
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
sia ne l'azzione come ner pensiero
rimani un coso vôto e inconcrudente.
Io, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so' li zeri che je vanno appresso.

Romanità
Un giorno una Signora forastiera,
passanno còr marito
sotto l' arco de Tito,
vidde una Gatta nera
spaparacchiata fra l' antichità.
„Micia che fai?"- je chiese: e je buttò;
un pezzettino de biscotto ingrese;
ma la Gatta, scocciata, nu' lo prese:
e manco l' odorò.
Anzi la guardò male
e disse con un' aria strafottente:
„Grazzie, madama, nun me serve gnente:
io nun magno che trippa nazzionale!"

Er disinteresse
Una Mosca cascò drento un barattolo
pieno de marmellata
e ce rimase mezzo appiccicata.
Cercava de sta' a galla, inutirmente:
provava a uscì, sbatteva l'ale: gnente!
Più s'attaccava ar vetro
più scivolava addietro.
Un Ragno, che per caso
lavorava su un trave der soffitto,
cór filo de la tela, dritto dritto,
scese a piommo sur vaso:
„Che bella Mosca!" – disse – „pare un pollo!
È necessario che la sarvi io
pijannola p'er collo:
armeno ce guadagno
che fo 'na bona azzione e... me la magno."
Conosco uno strozzino amico mio
che cià li stessi metodi der Ragno.

Er porco
Un vecchio Porco disse a certe Vacche:
La vojo fa' finita
de fa' 'sta porca vita.
Me vojo mette er fracche,
le scarpe co' lo scrocchio,
un fiore, un vetro all'occhio,
e annammene in città,
indove c'è la gente più pulita
che bazzica la bona società.-
Fu un detto e un fatto, e quela sera istessa
agnede a pijà er tè da 'na contessa:
s'intrufolò framezzo a le signore,
disse quarche parola de francese,
sonò, cantò, ballò, fece l'amore.
Ma doppo du' o tre giorni
er vecchio porco ritornò ar paese.
Che? - fecero le Vacche - già ritorni?
Dunque la società poco te piace...
No - disse er Porco - so' minchionerie!
Io ce starebbe bene: me dispiace
che ce se fanno troppe porcherie...

Er ventriloco
Se credi a questo, sei 'no scemo, scusa.
Pô sta' che un omo parli co' la gente
come se ne la panza internamente
ciavesse quarche machina arinchiusa?
Nun credo che in un'epoca che s'usa
d'aprì la bocca senza di' mai gnente
esista sto fenomeno vivente
che dice tante cose a bocca chiusa!
Parla cór ventre! Oh questa si ch'è bella!
Sortanto er poveraccio che nun magna
se sente fa' glu-glu ne le budella.
Io stesso, speciarmente a fin de mese,
me sento che lo stomaco se lagna . . .
Ma sai ched'è? La voce der Paese!

La vispa Teresa
Se questa è la storia
che sanno a memoria
i bimbi di un anno,
pochissimi sanno
che cosa le avvenne
quand'era ventenne.
Un giorno di festa
la vispa Teresa
uscendo di chiesa
si alzava la vesta
per farsi vedere
le calze schiffonne
che a tutte le donne
fa molto piacere.
Armando, il pittore,
vedendola bella,
le chiese il favore
di far da modella.
Teresa arrossì,
ma disse di sì.
„Verrete?" - „Verrò:
ma badi però..."
„Parola d'onore!"
rispose il pittore.
Il giorno seguente,
Armando, l'artista,
stringendo furente
la nuova conquista
gridava a distesa:
„T'ho presa, t'ho presa!"
A lui supplicando
Teresa gridò:
„Su, su, mi fai male
la spina dorsale:
mi lasci che anch'io
son figlia di Dio...
Se ha qualche programma
ne parli alla mamma..."
A tale minaccia
Armando tremò,
dischiuse le braccia,
ma quella restò.
Perduto l'onore,
sfumata la stima,
la vispa Teresa,
più vispa di prima,
per niente pentita,
per niente confusa,
capì che l'amore
non è che una scusa.
Per circa tre lustri
fu cara a parecchi:
fra giovani e vecchi,
oscuri ed illustri,
la vispa Teresa
fu presa e ripresa.
Contenta e giuliva
s'offriva e soffriva.
(La donna che s'offre.
se apostrofa l'esse,
ha tutto interesse
a dire che soffre.)
Ma giunta ai cinquanta,
con l'anima affranta,
col viso un po' tinto,
col resto un po' finto,
per torsi d'impaccio
dai prossimi acciacchi
apriva uno spaccio
di Sali eTabacchi.
Un giorno un cliente,
chiedendo un toscano
le porse la mano
così... casualmente.
Teresa la prese,
la strinse e gli chiese:
„Mi vuole sposare?
Farebbe un'affare!"
Ma lui, di rimando,
rispose: „No, no!...
Vivendo e fumando
che male ti fo'?
Confusa e pentita
Teresa arrossì,
Dischiuse le dita
e quello fuggì.
Ed ora Teresa,
pentita davvero,
non ha che un pensiero:
d'andarsene in chiesa.
Con l'anima stracca
si siede e stabacca,
offrendo al Signore
gli avanzi di un cuore
che batte la fiacca.
Ma, spesso, fissando
con l'occhio smarrito
la polvere gialla
che resta sul dito,
le sembra il detrito
di quella farfalla
che un giorno ghermiva
stringendola viva.
Così come allora,
Teresa risente
la voce innocente
che prega ed implora:
„Deh, lasciami! Anch'io
son figlia di Dio!
„Fu proprio un bel caso!"
sospira Teresa,
fiutando la presa
che sale nel naso.
„Se qui non son lesta
mi scappa anche questa."
E fiuta, e rifiuta,
tossisce e sternuta:
il naso è una tromba
che squilla e rimbomba
e pare che l'eco
si butti allo spreco...
Tra un fiotto e un rimpianto,
tra un soffio e un eccì,
la vispa Teresa...
. . . . . . . . . . . . . . . .
lasciamola lì.

 
Trilussa - Poesie
Le più belle poesie
di Trilussa
 
Trilussa - Poesie
Trilussa: Poesie